Sezione Miscellanea. La sottile linea orbitale tra scienza e fantascienza

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La sottile linea orbitale tra scienza e fantascienza. (Fausto Vernazzani)

Il 4 ottobre 2017 il pianeta Terra festeggerà i suoi 60 anni dal primo lancio di un satellite nello spazio, lo Sputnik 1, sparato oltre l’orbita terrestre dal programma spaziale Sovietico, poi sostituito dalla Roscosmos, la storica agenzia spaziale russa. Nonostante questa lunga relazione con la ricerca aerospaziale, nelle odierne edizioni dei telegiornali delle principali reti italiane, i tuffi tra gli anelli di Saturno della sonda Cassini-Huygens e altre missioni presenti e future vengono ancora descritte con il termine fantascienza.

La serialità televisiva e soprattutto il cinema stanno tentando di accorciare le consistenti distanze che ancora oggi separano la ricerca aerospaziale dall’immaginario a cui i mass media fanno riferimento, all’apparenza fossilizzato all’epoca in cui si parlava dei razzi di Wernher Von Braun. Età storica in cui le rappresentazioni erano quelle dei missili delle produzioni di George Pal come Uomini sulla Luna (1950) e Quando i mondi si scontrano (1951) o il The Quatermass Xperiment (1953) della Hammer Films Production.

La realtà nell’immaginario
I media audiovisivi tentano di accorciare queste distanze, adottando con sempre maggior frequenza scenari realistici al di là della Terra, come la Stazione Spaziale Internazionale (ISS), includendo nelle ambientazioni i relitti di precedenti missioni, come le Apollo oppure i rover inviati sulla superficie di Marte. In altre occasioni, invece, mettendo in scena una versione tangibile delle ricerche ora in via di svolgimento, tra cui figurano senza alcun dubbio gli innumerevoli piani per stabilire colonie sul nostro satellite, la Luna, oppure sul quarto pianeta del Sistema Solare.

Di fronte ai tentativi di ricucire il divario è giusto porsi delle domande per comprendere oggi cosa è e come è vista la fantascienza rispetto agli anni in cui il termine stesso nacque, sia in seno alle riviste statunitensi dei primi anni del Novecento, dove si formò la scienti-fiction (1926), sia nella versione italianizzata. In particolare, è utile porsi questa domanda in relazione al settore della ricerca aerospaziale, cresciuto sotto i nostri occhi, le cui innovazioni sono presenti nella vita quotidiana, oltre ad esser vissute da una fetta sempre più ampia della popolazione, sia per l’aumento del numero di astronauti e di mezzi di comunicazione attraverso cui informarsi e vivere a distanza l’esperienza “spaziale”.

La confusione regnante fra i media dell’informazione sulla differenza tra fantascienza e scienza ci spinge prima di tutto a chiederci qual è adesso l’ideale linea di demarcazione tra la science fiction e la rappresentazione realistica della ricerca scientifica. Stando ad alcune letture proposte in tempi recenti, è possibile ipotizzare la presenza di persone che sarebbero disposte a considerare sci-fi qualsiasi opera di finzione in cui si registrano luoghi raggiungibili esclusivamente con l’ausilio di esistenti tecnologie avanzate.

Prendere familiarità col vuoto
È quasi come se il termine fantascienza fosse stato tagliato a metà, annullando la definita relazione tra significato e significante, un’operazione che così facendo crea un ulteriore significato che ci spinge a considerare appartenenti al genere anche opere di finzione legate all’ambito scientifico. Un caso importante a cui possiamo fare riferimento, attorno cui è nato un vero e proprio dibattito sull’appartenenza al genere di fantascienza, è Gravity (2013), film di Alfonso Cuarón, vincitore di sette premi Oscar alla 86ª edizione degli Academy Awards.

La storia della dr.sa Stone interpretata da Sandra Bullock, biologa in missione per conto della NASA, a bordo di uno space shuttle, vittima insieme ai suoi colleghi astronauti di una mortale pioggia di detriti, sarebbe da afferire al sottogenere del survival horror: personaggi tra la vita e la morte, incastrati in luoghi impervi o irraggiungibili, tagliati fuori dal mondo. Gravity è un esempio perfetto del genere, essendo ambientato letteralmente fuori dal mondo, eppure, dalla comunità cinematografica viene stato definito film di fantascienza.

Il crollo dell’infrastruttura spaziale umana, causato dal problema della spazzatura spaziale in orbita attorno al nostro pianeta, la presenza di satelliti e di altre apparecchiature cadute in disuso, ma ancora orbitanti, sono elementi di uno scenario che risulta plausibile, nonostante venga inscritto all’interno di un mondo di metallo sospeso nei nostri cieli, un infinito re-immaginato da Gravity come una linea interamente percorribile, seppur con difficoltà, in cui ogni stazione e satellite si sposta lungo la stessa distanza dalla superficie terrestre. La plausibilità e la presenza di astronauti al lavoro nell’orbita della Terra non ha fermato però molti dal catalogarlo come sci-fi.

Astrofuturismo ad alto budget
Partendo da Gravity e dalle problematiche emerse nel definire il genere si può tracciare una mappa dell’astrofuturismo odierno, in cui lo studio delle tecnologie correlate all’ambito scientifico prevale sull’elemento di finzione, così da ricucire il rapporto tra le due categorie per offrire al pubblico una visione di un presente o di un futuro prossimo in cui i sogni di conquista dello spazio si sono realizzati o si stanno realizzando. A essere messo in discussione nel cinema è l’elemento fantastico, viene invece ripescato il sapore della plausibilità, il realismo cinematografico.

Con l’aiuto dei nuovi mezzi espressivi resi possibili dai visual effects (VFX) e dalla CGI è stato possibile avvicinare lo sguardo degli uomini sulla Terra a quello di chi nello spazio può osservare il nostro pianeta ruotare su sé stesso e fotografare le tempeste dall’alto. Un altro film che come Gravity gioca sul realismo è The Martian (2015) di Ridley Scott, in cui la decisione di ambientare la storia nel futuro schiva con abilità la discussione relativa alla forma fantascientica del film, come accadde per Cuarón. Il domani toglie ogni dubbio.

Coi piedi ben piantati su Marte e un cast diviso su tre diversi livelli del Sistema Solare – i quartieri generali della NASA sulla Terra, l’astronave Ares col suo equipaggio e il solitario Matt Damon nel suo habitat marziano -, Ridley Scott, adattando le pagine del romanzo di Andy Weir, racconta le chance di porre in atto una colonia su Marte, studiate nei decenni dalle varie agenzie spaziali sparse per il pianeta, ma in particolare dalla NASA stessa, protagonista tanto nel romanzo quanto nel film vincitore di 2 Golden Globe.

Si tratta di un futuro studiato a fondo, da verificare nella pratica: nella ricerca “ossessiva” del realismo assoluto di ogni singolo dettaglio della disavventura dell’astronauta Mark Watney di Matt Damon, Ridley Scott cerca di trovare il linguaggio giusto per avvicinare il pubblico a fatti scientifici la cui natura è ormai appurata, allo scopo di intrattenerlo e coinvolgerlo al meglio. Se c’è dunque della fantascienza in The Martian è perché ancora nulla di tutto ciò che viene descritto sullo schermo è avvenuto. Ma, appunto, non ancora.

Un teen drama su Marte
È possibile accorciare le distanze anche creando una commistione con altri generi ben più radicati nella realtà quotidiana, quale può essere un comune teen drama. Parliamo dunque di The Space Between Us (2017) di Peter Chelsom, altra trasposizione di un’opera letteraria, in cui il protagonista di Asa Butterfield è il primo essere umano a essere nato e cresciuto all’interno della colonia marziana, col cuore legato alla Terra, ma col corpo costretto a rispondere alle leggi della natura artificiale creata su Marte.

La sua storia d’amore col personaggio di Britt Robertson, normale adolescente degli USA, riporta alla memoria un’affermazione del divulgatore scientifico Neil deGrasse Tyson, espressa in relazione alle missioni sulla Luna: «Though we went to the Moon to explore the Moon, upon getting there and looking back, in fact, we would discover Earth for the first time»i. Il cinema oggi ci porta nello spazio e, allo stesso tempo, ci sta aiutando a scoprire la Terra, le sue innovazioni scientifiche, le sue ambizioni, le scoperte effettuate all’interno dei laboratori di ricerca, talvolta geograficamente più vicini a noi di quanto pensiamo. Il viaggio di Butterfield da Marte alla scoperta dei colori e dei suoni della Terra è un caso esemplare.

In tutti e tre i film di cui sopra si desidera trasmettere al pubblico ad ogni costo un messaggio preciso: noi siamo nello spazio. Il cinema si sta impegnando ad assottigliare la distanza, a creare un trait d’union tra la realtà e la fantasia, anzi, la speculazione, un termine assai più importante nel reame della fantascienza, caro a uno dei maggiori scrittori di genere del Novecento, Robert A. Heinlein, soprattutto se consideriamo questa specifica branca relativa all’immaginazione della vita umana nella sua tensione ad andare oltre l’atmosfera terrestre, in uno spazio profondo, anche se ormau non più profondo come un tempo.

Terrore dallo spazio
La deriva realista volta all’avvicinamento tra noi e la ricerca aerospaziale è così forte da aver investito anche un fortunato sottogenere della fantascienza che ha tra i capostipiti l’Alien (1979) di Ridley Scott, ovvero l’horror sci-fi. In questo filone alla verosimiglianza vengono affiancate le vecchie paure legate all’ “infinitesimale e l’infinito”ii delle pagine filmiche prese dai romanzi di Richard Matheson. Il terrore dell’infinito e del vuoto asfissia Mark Strong in Approaching the Unknown (2016) di Mark Elijah Rosenberg, la paura degli infinitesimali batteri si scaglia con ferocia contro l’equipaggio della ISS di Life (2017) di Daniel Espinosa e in misura inferiore in Prometheus (2012) di Ridley Scott, orrori lovecraftiani e creature terrificanti spezzano invece la vita agli astronauti di Apollo 18 (2011) di Gonzalo López-Gallego ed Europa Report (2013) di Sebástian Cordero.

Se nei più famosi esempi di horror sci-fi si affrontavano paure e orrori provenienti dagli spazi siderali, pensiamo alle origini sconosciute de La Cosa (1982) di John Carpenter e alle profondità interstellari del già citato Alien, è facile individuare le differenze con le produzioni contemporanee. Il Sistema Solare e gli otto pianeti da cui è costituito (escluso ma ugualmente importante Plutone) sono il set del cinema di fantascienza di base spaziale, spesso privo di un budget consistente, escluso il Martian di Scott, patrimonio di quella science-fiction con lo sguardo diretto al di fuori della nube di Oort.

Il rinascimento della space opera
Tuttavia vi sono esempi più vicini al concetto di space-opera, come le descrive Gary Westfahl nel Cambridge Companion to Science Fiction (testi dalla trama standardizzata e connotati da un forte senso dell’avventuraiii), che ancora puntano allo spazio come a una landa infinita entro cui disegnare qualsiasi cosa si desidera e che, di recente, hanno ritrovato una loro fortuna commerciale. Il successo è arrivato, anzi ritornato, grazie in particolare a due saghe storiche, Star Trek (2009) della Paramount e Star Wars (2015) della Walt Disney Pictures, entrambi con l’apporto di J.J. Abrams alla regia, ma anche con tre classici della letteratura e del fumetto, rispettivamente John Carter (2012) di Andrew Stanton e il duo Guardiani della Galassia con sequel annesso (2014-2017) di James Gunn e Valerian e la città dei mille pianeti (2017) di Luc Besson in uscita il prossimo luglio in Francia e negli Stati Uniti, a cui si sono di certo ispirate le sorelle Lana e Lilly Wachowski per il loro economicamente fallimentare Jupiter – Il destino dell’universo (2015).

Sono opere che hanno come antenati Flash Gordon e Buck Rogers, ripresentatisi al cinema come una sorta di reazione alle infiltrazioni realistiche della NASA stessa – il suo coinvolgimento nella produzione di The Martian è notevole – e via dicendo. Uno schieramento di natura classica, intesa come periodo storico di riferimento, ovvero l’epoca d’oro della fantascienza della prima metà del secolo breve di Hobsbawm. A costruire un ponte tra la classicità, anche nella sua succitata riscrittura contemporanea in forma di blockbuster, e il trend odierno vi è stato pochi anni fa uno dei film di science-fiction più famosi dei nostri giorni, Interstellar (2014) di Christopher Nolan.

Pur dando all’avventura un ruolo centrale nella storia, le vicende dell’astronauta Cooper a caccia di pianeti da colonizzare per permettere all’umanità di sopravvivere alla progressiva morte della Terra creano le condizioni per mostrare le conseguenze realistiche del viaggio interstellare. Lo sceneggiatore e fratello del regista, Jonathan Nolan, si è impegnato per anni all’interno dell’università per studiare i buchi neri e le teorie sul viaggio attraverso di essi, coinvolgendo nella scrittura anche un consulente d’eccezione come l’astrofisico Kip Thorne, pubblicato da Castelvecchi col suo Buchi neri e salti temporali, uno dei massimi teorici viventi di questa specifica area di studi. Si opta dunque anche in questo caso per una visione realistica, pur allontanandosi di netto dal nostro Sole.

Legame indissolubile tra scienza e fantascienza
In conclusione diviene evidente come la fantascienza cinematografica di ambientazione spaziale abbia la necessità e il desiderio di seguire il trend del realismo nato come conseguenza della digitalizzazione del cinema. La rapidità del digitale rispetto alla pellicola nel registrare il momento presente, la fedeltà all’immagine reale e la trasmissione di un senso di immediatezza difficile da ottenere con le macchine da presa precedenti, la definizione di modelli fotografici alternativi, sono tra le varie teorie e tecniche che vengono ormai applicate tanto nel genere drammatico e quanto negli action movie (basti ricordare l’azione realistica di The Bourne Identity (2002) traslata anche nell’immaginario fantascientifico).

È difficile oggi separare la scienza dalla fantascienza nel filone da noi studiato, se non quando i budget lievitano e allora l’immaginazione regna sovrana, ma si tratta di casi, appunto, in cui lo spirito della space-opera classica resuscita e ingaggia come protagonista l’avventura. Scienza e fantascienza operano in combutta l’una con l’altra, utilizzano, con sempre maggior passione, gli strumenti di entrambe le parti: ad esempio Tomek Bagiński diresse, nel 2014 Ambition, un cortometraggio sci-fi su commissione dell’ESA, con Aidan Gillen protagonista, allo scopo di celebrare lo storico viaggio della sonda Rosetta verso la cometa 67p/Churyumov-Gerasimenko e l’accometaggio del rover Philae.

Potremmo affermare che il genere sta tentando di allungare i propri tentacoli e rientrare all’interno della speculazione e del discorso scientifico e nella sua rappresentazione cinematografica, non solo per un’imposizione dall’alto, ma anche per volere del pubblico che alla scienza abbina una nuova sensazione di fantastico (in fin dei conti è vero che è impossibile non rimanere a bocca aperta davanti alle incredibili immagini 3D di Gravity). La meraviglia è stata rispolverata, quasi a dover sostituire fanta- nella fantascienza, e, dall’altro lato, si è sentito il bisogno di dare maggior voce alla scienza. Sono lontani gli anni di The Last Starfighter (1984) e dei viaggi spaziali garantiti da una vittoria ai videogame, o i rapimenti alieni di Navigator (1984).
Oggi la scienza è ufficialmente co-protagonista.

i N. DEGRASSE TYSON in StarTalk Radio, “Neil deGrasse Tyson: We Went to the Moon & Discovered the Earth”, < https://www.youtube.com/watch?v=pjHpjSpC5m0>, 2016 [ultima cons. 26/10/2016].

ii J. ARNOLD, Radiazioni BX: distruzione uomo, A&R Productions and Distribution SNC, 2012.

iii G. WESTFAHL, Space-Opera (2003), in E. JAMES, F. MENDLESOHN (a cura di), The Cambridge Companion to Science-Fiction, Cambridge University Press 2003, pp. 197-198.

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