Sezione Monografica – Dune

Dune.  (Danilo Acinapura)

Esistono testi letterari impossibili da portare su schermo; almeno senza i dovuti tagli, accorpamenti, semplificazioni; o senza tradirne lo spirito, la portata immaginifica o rivoluzionaria. E per lungo tempo, il Dune di Frank Herbert è stato considerato tale.

INIZIO E FINE DI UN GENERE
Pubblicato per la prima volta nel 1965, in un tripudio di vendite e riconoscimenti, Dune è (giustamente) considerato come il testo sacro della fantascienza moderna, con buona pace di Isaac Asimov e le sue visioni. Perché nelle sue 483 pagine, Herbert riusciva a far confluire una visione del futuro densissima, ricca di riferimenti alla controcultura, alla filosofia esistenzialista, alle culture sciamaniche, con una critica diretta e sagace alla religione e all’imperialismo coloniale.

Nella sua linea essenziale, la storia di Dune può essere descritta come una Space Opera, data l’ambientazione, il che la rende una delle prime del genere, preceduta cronologicamente solo dai lavori del già citato Asimov. Mentre la trama è un semplice racconto di caduta e vendetta. A fare la differenza, ovviamente, è la fantasia sfrenata dell’autore, che immagina un futuro diverso da quanto sia stato fatto prima e da quanto sarebbe stato fatto dopo.

L’anno è il 10.191. La razza umana ha subito un’evoluzione tecnologica e sociale talmente radicale da riplasmarsi su forme e modi del passato. Alle armi laser, praticamente bandite, si sono sostituiti i duelli all’arma bianca, mentre scudi di energia permettono ai soldati di ripararsi dai comuni proiettili.

L’espansione spaziale è infinita, il cosmo sembra essere stato esplorato in tutta la sua interezza.

Il sistema politico è quello monarchico, con i feudi planetari affidati nelle mani di singole casate.

Tra queste ci sono la casa dei Corrino, dal quale discente l’attuale Imperatore, Padiscià Shaddam IV; la casa degli Harkonnen, infidi manipolatori con il culto della forza bruta e della sopraffazione, guidata dal barone Vladimir Harkonnen. Nonché la casata degli Atreides, la più nobile, il cui lignaggio pare risalire ad Agamennone, guidata dal duca Leto il Giusto.

Ma il vero centro dell’Universo non è la capitale imperiale Kaidan, bensì il desolato pianeta Arrakis, chiamato dagli indigeni Dune. Solo qui è infatti presente una rarissima spezia: il Melange, chiave dello status quo di molte organizzazioni.

La sorellanza delle Bene Gesserit, setta di streghe che usa la religione ed i miti artefatti per infiltrarsi tra i popoli e manipolarli, usa il Melange per acuire i propri sensi sino a giungere al dominio totale sul corpo e sulla mente; al punto da riuscire a dominare il DNA dei nascituri.

La Gilda dei Navigatori la usa invece per aumentare le proprie capacità mentali e per permettere alle proprie navi di muoversi nell’Universo; il che la rende la corporazione più potente.

Chi controlla la Spezia, in pratica, controlla l’Universo.

Herbert usa così una metafora semplice e potente per descrivere il balletto del potere. La Spezia è il petrolio, quell’Oro Nero che ha cambiato il volto del progresso umano a partire dalla fine del XIX secolo. Il colonialismo di quei territori medio-orientali per ottenere il primato sull’estrazione viene trasfigurato nella lotta tra la Casata Harkonnen, che ha usurpato i diritti e distrutto la casa Atreides, ed i Fremen, gli abitanti del deserto di Dune. Mentre il protagonista, Paul Atreides, è una figura complessa, che trova in parte le sue radici nella figura mitica del colonnello T.E. Lawrence, che a lungo si batté per l’indipendenza e l’emancipazione delle tribù arabe, in parte nei profeti dei miti religiosi.

Si parla apertamente di Jihad, di guerra santa contro gli infedeli, ossia gli occupanti del pianeta. E di Paul come un messia liberatore, ma al contempo distruttore, che porterà tale guerra in tutto l’Universo.

Di fianco alla metafora politica, Herbert intesse una fitta trama fatta di tradimenti e doppi giochi, intrecciando la storia dell’ascesa di Paul a quella Fayd Rautha della casata Harkonnen.

Ma, ancora più, immerge il racconto in suggestioni filosofiche e mistiche di indubbio fascino.

La crescita di Paul è quella dell’uomo che è chiamato a prendere coscienza di sé, del suo ruolo e delle sue capacità. Lui è il “kwisatz aderach”, un profeta creato tramite il controllo genetico delle Bene Gesserit per soggiogare tutti i popoli. Ma è al contempo un burattino che si ribella al burattinaio ed usa il potere della chiaroveggenza contro di lui.

L’illuminazione giunge tramite l’uso della droga (la Spezia) usata per aprire le porte dei sensi, ampliarne le capacità, espandere la mente. Ma quella di Herbert non è esaltazione della cultura beat, né la ripresa meccanica delle teorie che Timothy Leary decantava in quegli anni, quanto un’assimilazione della medesima base, quella della ritualità sciamanica antica.

In Dune finiscono così per fondersi istanze ed ispirazioni antitetiche, talvolta contradditorie: dalla fantascienza alla filosofia classica, dalla critica all’organizzazione religiosa alla ripresa di alcune delle sue basi. Il tutto per tracciare un quadro complessivo incredibilmente vivo, dove ogni singola pianta, popolo, corporazione e personaggio è graziato da una serie di dettagli infiniti che rendono l’universo di Herbert talmente complesso da sembrare reale. Tanto che nessuna altra opera fantascientifica successiva è riuscita ad eguagliarlo.

II PARTE
DALLA MENTE ALL’OCCHIO: VISIONARI A CONFRONTO
L’impresa di tradurre in uno script cinematografico preciso e coerente la mole di scrittura di Dune (e si fa riferimento, ovviamente, al solo primo romanzo di quella che sarebbe diventata una serie lunga e via via più complessa) è quindi già di per sé un’operazione a dir poco titanica: impossibile rendere giustizia alla sua complessità visionaria, al caleidoscopio di culture e mondi che si animavano in quelle 400 e più pagine.

Un primo tentativo fu effettuato, tuttavia, non più tardi di un decennio dopo l’uscita del primo romanzo. Nel 1974, Alejandro Jodorowsky, attratto dalla fama dell’opera di Herbert, ne scrisse una propria riduzione ed assieme al produttore Michel Seydoux a lungo cercò i mezzi per portarla su schermo.

La sua versione di Dune è, se possibile, ancora più amena dell’originale; distanziandosi dalle pagine del romanzo, Jodorowsky avrebbe creato un mondo dove Paul è un vero profeta e Arrakis un pianeta vivente, in una storia infarcita di visioni oniriche e pulsioni sessuali.

Un tradimento che, stando a chi ha potuto leggere la sceneggiatura, ha portato alla creazione di un ibrido tra due visioni effervescenti e vive.

Visione che non vedrà mai il buio della sala: la mancanza dei fondi necessari affossò all’epoca il progetto ed oggi la versione di Jodorowsky è visionabile solo per il tramite dello splendido documentario “Jodorowsky’s Dune”.

DAR VITA ALL’IMPOSSIBILE: DE LAURENTIIS E LYNCH
Fallimento dalle cui ceneri riuscì però a nascere un altro adattamento, ad oggi l’unico arrivato nei cinema (il Dune di Denis Villeneuve è ancora in fase di pre-produzione). L’anno è il 1981 e Dino De Laurentiis è smanioso di creare qualcosa di unico, di grande al pari di Guerre stellari di Lucas, ma che sia al contempo un film complesso, profondo, dotato di un’anima.

Acquisiti i diritti dell’opera di Herbert, mette al timone del progetto (dopo l’abbandono di Ridley Scott) niente meno che David Lynch, qui alla sua prima vera prova hollywoodiana, all’epoca reduce dal successo di The Elephant Man ed in cerca di un’affermazione nel circuito hollywoodiano.

Il resto è Storia: il loro Dune è ricordato come uno dei più grandi fallimenti di Hollywood, un flop di proporzioni colossali, nonché uno dei film peggio recensiti del 1984.

Ma questa impresa titanica e folle, all’epoca foriera del più alto budget mai visto per un film, è davvero così tremenda come si vuole credere?

VISIONI D’AUTORE E MANNAIE DISTRIBUTIVE
L’affinità tra lo scritto di Herbert e i gusti di Lynch è pressoché totale. Il suo amore e la reverenza per l’universo di Dune, le sue sfaccettature, la sua complessità e densità trasuda da ogni scena.

Scrivendo di suo pugno lo script, pur con l’aiuto di due sceneggiatori scelti da De Laurentiis, Lynch riesce nell’impresa titanica di comprimere interi mondi in piccole sequenze e linee di dialogo.

I personaggi vengono riletti, anche se solo in parte. Il kwisatz haderch diviene un vero messia, mentre il Barone Harkonnen viene trasformato in un rivoltante ammasso di pustole, un folle incubo che cammina interpretato da un Kenneth McMillan superbamente sopra le righe, incarnazione della paura dell’omosessualità.

L’atmosfera onirica si fa inconscia ai limiti dell’ipnotico; Arrakis è anzitutto luogo della mente, dove le visioni di morte e distruzione si rifrangono nella poesia del deserto, delle gocce d’acqua (della vita) che sembrano trascendere il tempo.

La Space-Opera lisergica e filosofica è ora viaggio visionario nei meandri della mente di quei personaggi che muovono la storia. E le relative immagini sono semplicemente sbalorditive.

Poche scene tutt’oggi possono vantare la potenza della prima apparizione del verme Shai-Hulud che si scaglia contro il piccolo orniottero, vero e proprio capolavoro visivo ed effettistico, ad opera del compianto Carlo Rambaldi, che qui firma alcuni degli effetti speciali più riusciti. Ancora meno possono vantare, invece, la carica visionaria dell’Ordalia dell’Acqua della Vita, vero viaggio verso l’ignoto della mente che Lynch costruisce con dissolvenze e simbolismi che si marchiano a fuoco nell’occhio di chi osserva. Sequenze che però devono la loro riuscita anche all’azzeccato accompagnamento musicale: le musiche dei Toto e il tema principale di Brian Eno, puri pezzi elettro-synth anni ’80, sono perfette per le visioni lynchiane e vi si fondono impeccabilmente.

La ricchezza visiva di ogni singola scena ha dell’incredibile; Lynch riesce a valorizzare con inquadrature plastiche dalla composizione pittorica le magnifiche scenografie, facendone risaltare i finissimi dettagli. Ogni mondo ha un suo tratto caratteristico, sia il deserto senza fine di Arrakis che il palazzo d’oro di Kaitan, passando per l’incubo ospedaliero del mondo degli Harkonnen.
Ogni cultura ha tratti caratteristici visivi che l’autore si diverte a ripescare anche dal passato, come il microfono stile radio anni’30 usato dalla Gilda come traduttore.
Il viaggio spirituale di Paul è così pura visione inconscia, corsa verso una catarsi totale che avvolge gli occhi e la mente dello spettatore.
Eppure, al netto della bellezza di tali visioni, Dune è anche un film estremamente frammentario e monco.
I problemi che Lynch attraversò durante la produzione sono ormai cosa nota; se la sua visione su carta era completa, la mancanza di un director’s cut ha impedito alla stessa di raggiungere piena forma anche su schermo.
La “mannaia” della Universal ha colpito duro: i 137 minuti giunti in sala non sono che frammenti dell’opera originaria, della durata di oltre tre ore, pezzi sparsi di un mare magnum ben più completo ed articolato che mai vedrà la luce.
La successiva versione estesa, distribuita dapprima in televisione a partire dalla fine degli anni ’80 e poi in Home Video, non è altro che un accorpamento di alcune sequenze tagliate e montate alla bene e meglio. Operazione non supervisionata, né approvata dall’autore e per questo da lui disconosciuta.
Sicché l’opera di Lynch è condannata ad essere un paradosso: un’impresa strozzata sul nascere. Un film grandioso eppure incompleto. Un’esperienza sensoriale unica al quale però si accompagna una narrazione zoppicante. Una visione incredibile per la mente, ma non per la logica, che spesso casca nel seguire lo svolgimento degli eventi.

Si fa qui riferimento alla edizione italiana della Sperling e Kupfer del 1999.
Circa 40 milioni di dollari dell’epoca:
Come confermato in DAVID LYNCH, Io vedo me stesso, Il Saggiatore, Milano 2016, pp 145-167

Check Also

Sezione Miscellanea – La settima arte come sbarco sulla Luna

La settima arte come sbarco sulla Luna: come è cambiata la visione su e dell’uomo …